La scelta del nome “Artgender” deriva dalla considerazione per cui esso non debba essere usato solamente come il brand che identifica una particolare società che opera nei settori dell’eventistica, dell’editoria e della comunicazione; per noi l’Artgender rappresenta una vera e propria tipologia di essere umano ovvero chi lo è più profondamente.

Non esclude nessuno ma rinomina una categoria, composta da gente molto diversa al proprio interno… di qualunque credo, origine e direzione; ma, accomunata da un unico fattore: quello artistico. Chiunque può essere o sentirsi un artista fin tanto che si preoccupa di produrre o semplicemente accostarsi ad una qualsiasi forma di espressione.

Questa parola, il nostro nome, identifica chi crede che la bellezza sia necessaria, nelle cose, nelle persone, nei pensieri, nelle parole, nei modi… che l’ispirazione contribuisca alla formazione personale e che l’implementazione delle proprie doti contribuisca ad un’evoluzione individuale.

Paul Jackson Pollock una vita tra gocce d’arte e gocce d’alcol

Paul Jackson Pollock una vita tra gocce d’arte e gocce d’alcol

Il 28 gennaio 1912 nella cittadina di Cody nel Wyoming, Stella May McClure dà alla luce un maschietto, ultimo di cinque figli, cui viene dato il nome di Paul Jackson. Il marito si chiama LeRoy McCoy ma da tanti anni ha cambiato cognome prendendo quello dei suoi vicini di casa, i Pollock, che lo hanno adottato in seguito alla scomparsa dei genitori.
Come si può intuire dal prefisso “Mc”, sia Stella che LeRoy hanno origini irlandesi e sono entrambi presbiteriani. Lui è un agricoltore che inizia a lavorare per lo Stato come agrimensore, lei discende da una famiglia di tessitrici e sin da giovane si guadagna da vivere vendendo gli abiti che realizza.


Il piccolo Jackson ha soltanto dieci mesi quando la madre decide di portarlo con sé a San Diego per poi trasferirsi tra l’Arizona e la California, dove l’artista trascorre i primi anni della sua vita.

A Los Angeles i Pollock abitano in un quartiere chiamato Vermont Square ed il figlio più piccolo frequenta dapprima la High School di Riverside ma, per via di un’espulsione, inizia a frequentare la Manual Arts High School.
A causa di una totale mancanza di disciplina egli viene, però, espulso anche da questo liceo.


Il giovane Pollock trascorreva molto tempo con il padre LeRoy, accompagnandolo nei suoi tanti sopralluoghi di lavoro, durante i quali entrano in contatto con i nativi Americani, studiando la loro cultura e le loro tecniche pittoriche, come la particolarissima “sand painting” (“pittura con la sabbia”).

All’età di 28 anni, seguendo le orme del fratello Charles, Pollock si trasferisce a New York dove inizia a frequentare la Art Students League, diventando allievo di Thomas Hart Benton. Proprio insieme a questo suo primo mentore, Pollock compie un viaggio negli Stati Uniti occidentali ed inizia a sperimentare un uso innovativo del colore, pur non avvicinandosi mai ai soggetti “rurali” che dominano le opere di Benton.

Un altro incontro fondamentale per lo sviluppo del suo stile è quello con l’artista messicano David Alfaro Siqueiros, esperto di murales, che Pollock conosce nel 1936 durante un workshop a New York. È proprio in questo periodo che il pittore inizia a versare i colori direttamente sulla tela, ponendo le basi di una tecnica che affinerà col tempo.

Poco dopo essersi trasferito a Springs, Pollock capisce che il cavalletto è soltanto un ostacolo tra l’artista ed il dipinto e decide di stendere le sue tele direttamente sul pavimento dello studio. Il colore viene, quindi, colato dall’alto direttamente sul quadro, con una tecnica chiamata “dripping” che si avvale dell’ausilio di bastoncini e siringhe per creare il caratteristico effetto “goccia che cade”.
Ma se da un punto di vista artistico egli sta maturando in fretta, a livello personale iniziano a comparire i primi sintomi di una grave dipendenza dall’alcol. Su consiglio di uno psicoterapista, Pollock cerca di concentrarsi sul suo lavoro avvicinandosi ai principi junghiani e trasferendoli su tela.

L’occasione si presenta nel 1939 quando John Graham lo fa esporre all’interno della Mc Gallery di New York, ma soprattutto nel 1943 quando la famosa collezionista d’arte Peggy Guggenheim organizza la sua prima mostra “personale” all’interno della galleria Art of This Century.
Nel luglio di quello stesso anno la Guggenheim, con cui Pollock aveva firmato un contratto che lo vincola per cinque anni, gli commissiona la realizzazione di un dipinto su tela delle dimensioni di un murale per l’ingresso al piano terra della sua nuova abitazione: “Mural”, il dipinto più grande mai realizzato da Pollock.

“Feci dipingere a Jackson Pollock un murale alto due metri e largo sette. Marcel Duchamp disse che avrebbe dovuto dipingerlo su una tela, altrimenti il giorno in cui avessi lasciato l’appartamento l’avrei dovuto abbandonare lì”.

Pollock ascolta il consiglio di Duchamp e non realizza l’opera direttamente su muro. Un’intuizione che permetterà, alcuni anni dopo, a Peggy Guggenheim di regalare l’opera al Museo d’arte della University of Iowa.

Intanto tre anni prima, nell’ottobre del 1945, Pollock aveva sposato la pittrice Lee Krasner, incontrata nel 1942 alla McMillen Gallery dove entrambi gli artisti esponevano le loro opere. Grazie all’aiuto finanziario di Peggy Guggenheim, la coppia si trasferisce al civico 830 di Fireplace Road ad East Hampton (Long Island), dove Pollock aveva fatto costruire una casa di legno ed un fienile, utilizzato come laboratorio. Il complesso, noto come Pollock-Krasner House and Study Center, è oggi registrato tra i luoghi di particolare interesse storico d’America.
Proprio in quel laboratorio, Pollock perfeziona il suo “dripping” realizzando alcune delle sue opere più significative che gli valsero il curioso appellativo di “Jack the Dripper”.

Jackson è ormai all’apice della sua carriera. Nel 1948 espone all’interno della galleria “Art of this Century” di New York, due anni dopo è tra gli artisti che espongono alla biennale di Venezia, poco dopo è a Parigi e poi ancora a Zurigo.
L’8 agosto 1949 la rivista Life decide di dedicargli un servizio di quattro pagine in cui Pollock compare davanti ad alcune sue opere. In basso una scritta che funge al tempo stesso da titolo e da interrogativo: Jackson Pollock, è lui il più grande pittore vivente degli Stati Uniti?”
Non doveva pensarla così Pollock stesso che, ignorando il successo della critica e dei collezionisti d’arte, nel 1951 decide improvvisamente di cambiare stile, abbandonando drasticamente la tecnica del drip.

Questo nuovo periodo artistico viene spesso definito “Black pourings” per l’abbondante utilizzo di colori scuri e spesso addirittura soltanto del nero. Pollock espone queste nuove opere all’interno della Betty Parsons Gallery di New York ma, contrariamente a quanto avveniva per i suoi precedenti dipinti, nessuna trova un acquirente.
È forse questa la causa scatenante della nuova e più intensa ricaduta di Pollock nell’alcolismo. Il suo carattere diventa scostante e si incrina persino il rapporto con la Krasner, anche a causa di una relazione extraconiugale con Ruth Kligman che diviene ben presto sua amante.

Ed è proprio con la Kligman che Pollock si trova la notte dell’11 agosto 1956, a bordo di un’automobile che il pittore quarantaquattrenne guida in stato d’ebbrezza. Si trovano a circa un miglio dall’abitazione di Pollock, ma il pittore non ha il pieno controllo del veicolo ed alle 22:15 sbanda, causando un incidente mortale per lui e per il terzo passeggero, l’amica Edith Metzger. 
A salvarsi è soltanto l’amante Ruth Kligman che il poeta Frank O’Hara soprannominerà “la ragazza dell’auto della morte”.
La moglie Lee è in viaggio in Europa quando riceve la terribile notizia. Torna rapidamente negli Stati Uniti e si attiva subito per organizzare un’esibizione retrospettiva in memoria del marito al Museum of Modern Art (MoMA).

La Krasner continuò per anni ad amministrare l’eredità artistica di Pollock ed è oggi sepolta al suo fianco al Green River Cemetery di Springs.

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