

Artemisia Gentileschi animo d’artista e cuore impavido
Pittrice barocca del XVI secolo, il suo nome cadde nell’olio e per molti anni le sue opere furono attribuite ad artisti maschi; ma, con il talento artistico ed il suo coraggio, scardinò le convenzioni pittoriche dell’epoca.
Artemisia Gentileschi animo d’artista e cuore impavido
Presto orfana di madre, iniziò fin da piccola ad accompagnare il padre nel suo studio e così pennelli, tele e colori divennero la sua più grande passione.
Orazio insegnò a sua figlia le tecniche per preparare i materiali utilizzati nella realizzazione dei dipinti: come macinare i colori, come purificare gli olii, come confezionare i pennelli e come preparare le tele.
Fu un’allieva estremamente attenta e perfezionò le proprie doti pittoriche esercitandosi a lungo nella copia dei dipinti e delle incisioni presenti nello studio del padre.
Un’enorme influenza sul suo stile la diede la pittura di Caravaggio che Artemisia ebbe modo di ammirare e di conoscere personalmente visto che il grande artista frequentava spesso lo studio Gentileschi.
Tra il 1608 e il 1610, il rapporto tra Artemisia ed il padre si trasformò da discepolato a fattiva collaborazione: l’allieva cominciò ad intervenire su alcune tele paterne ed iniziò anche a produrre opere in completa autonomia.
È di questo periodo la datazione del dipinto “Susanna e i Vecchioni”.
L’innato talento per le Belle Arti fu motivo di orgoglio e di vanto per messer Orazio che decise di dare alla figlia ulteriori possibilità di studio delle tecniche pittoriche.
Ma le possibilità di una carriera nell’arte, per una donna del XVII secolo, erano quasi inesistenti, tanto più se non si proveniva da una famiglia aristocratica; perciò Orazio decise di porla sotto la guida di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva.
Agostino Tassi, detto lo “smargiasso”, era un pittore di talento, collaboratore di Orazio Gentileschi, ma dal carattere sanguigno e iroso e dal passato burrascoso e furfantesco.
Tassi accettò subito di iniziare Artemisia alla prospettiva ma, spavaldo quale era, iniziò anche a molestarla e, nel 1611, la violentò.
Lo stupro si consumò nell’abitazione di Gentileschi, in via della Croce, a Roma, con la compiacenza di vari personaggi come Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica e frequentatore di casa Gentileschi, e Tuzia, una vicina di casa che spesso accudiva la ragazza.
Questo tragico evento influenzò la vita e lo stile artistico della pittrice.
Dopo la violenza, e per poter continuare ad abusare di lei, Tassi le promise le nozze riparatrici ed Artemisia, giovane, inesperta e romantica, ci credette.
Dopo circa un anno dall’accaduto, però, Artemisia scoprì che il Tassi era già sposato e quindi impossibilitato al matrimonio riparatore, così, dopo aver raccontato tutto al padre, sporsero denuncia.
Ebbe quindi iniziò una lunga vicenda processuale che pose Artemisia in una condizione di mortificazioni e di profonda sofferenza.
Fu obbligata a numerose visite ginecologiche lunghe ed umilianti, fu oggetto della morbosa curiosità della plebe di Roma ed il suo resoconto davanti al giudice fu sminuito e contrastato da molti falsi testimoni corrotti, tra cui proprio Tuzia e Cosimo Quorli.
Nel Novembre del 1612, però, la sentenza fu a favore di Artemisia condannando Agostino Tassi a cinque anni di carcere o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma.
Naturalmente il Tassi scelse la seconda opzione ma non scontò mai la pena poiché non lasciò mai Roma.
Il giorno successivo alla sentenza, Artemisia convolò a nozze con un pittore di modesta levatura, Pierantonio Stiattesi, con cui il padre Orazio aveva concordato il matrimonio per ridare alla figlia uno status di onorabilità.
In seguito alla vasta eco riscossa dal processo, i coniugi decisero di partire per Firenze.
Qui Artemisia venne accolta presso l’Accademia delle Arti del Disegno, prima donna a ricevere tale privilegio, e negli anni fiorentini realizzò alcune delle sue opere più celebri, che hanno come tema essenzialmente donne coraggiose, determinate e dedite al sacrificio come le eroine bibliche.
A questo periodo risalgono opere quali “La conversione della Maddalena” e “La Giuditta con la sua ancella”.
Nel 1621 tornò a Roma per poi spostarsi di nuovo a Venezia e poi Napoli, città presso cui si trasferì definitivamente.
Napoli fu per Artemisia una seconda patria nella quale curò la propria famiglia e dove ricevette vari attestati di grande stima.
Fu in buoni rapporti con il viceré Duca D’Alcalà ed ebbe rapporti di scambio con i maggiori artisti che vi erano presenti.
Nel 1638 fece un breve viaggio a Londra per raggiungere il padre Orazio che era diventato pittore alla corte di Carlo I ed anche qui ebbe modo di lavorare in autonomia per un certo periodo.
Quando però il padre morì, dopo poco, anche lei lasciò l’Inghilterra per tornare a Napoli; dove, probabilmente durante la terribile epidemia di peste che colpì Napoli nel 1656, Artemisia morì.